Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, agosto 21, 2025

Elijah di Felix Mendelssohn


L'Italia com'è largamente noto ed autorevolmente si 
deplora è il paese più antimusicale del mondo. Nonostante i grandi tenori, i loggionisti di Parma, i mandolini, San Remo e Napoli, o forse proprio a causa di essi, in Italia la musica è la Cenerentola nelle scuole. Non può quindi meravigliare il fatto che un festival dedicato all'Espressionismo come il XXVII Maggio Musicale Fiorentino, generoso tentativo di far capire alla gente che qualcosa si è pur mosso ai primi di questo secolo al di fuori della cinta daziaria di Firenze sia stato accolto dalla grande maggioranza del pubblico e, cosa ben più grave, da quasi tutti i più qualificati rappresentanti della fauna musicale locale come un vero e proprio crimine di lesa patria.
Questo recente episodio di malcostume civile oltre che di ignoranza non solo è tipico di tutta una situazione, ma fornirebbe utilmente lo spunto ad una parabola o ad un apologo critico sulla grama condizione delle cose musicali nel bel paese la dove il si suona, ridotto oggi ad una morta gora provinciale afflitto dal gracidio di burbanzosi e vacui retori, i quali si ammantano dei cenci di un Umanesimo che non ha più senso alcuno.
Non ci si stupirà, stando così le cose, se l'oratorio che è un genere musicale nato in Italia, come dice il nome, e fu illustrato da un Caldara e un Alessandro Scarlatti, musicisti ai quali tesero attento orecchio Bach e Haendel, abbia poi vigoreggiato in Germania e in Inghilterra assumendo col passare dei secoli fisionomia specificamente protestante e sia oggigiorno al di qua delle Alpi un rarissimo genere di importazione e come tale avvicinabile e fruibile solo attraverso rare esecuzioni soprattutto radiofoniche o per mezzo del disco.
Chi voglia coltivare questo fertilissimo settore della storia della musica e non si accontenti di aspettare ogni anno il settembre e prendere il treno per Perugia (almeno finché i valorosi organizzatori della Sagra Umbra resisteranno nella loro disperatissima lotta contro gli scarsi finanziamenti e l'indifferenza locale e romana) dovrà consultare attentamente i cataloghi delle case discografiche e potrà allora colmare molte gravi lacune, sempre che abbia anche il coraggio di sfidare le ire dei soloni della critica per i quali dischi ed analfabetismo musicale sono sinonimi. Noi non dubitiamo, anzi siamo sicurissimi che tutti i nostri illustri critici possiedano perfettamente a memoria la partitura dell'Elia di Mendelssohn, anzi abbiamo la certezza morale che se lo vanno fischiettando per la strada tutti i giorni, ma da poveri dilettanti e ignoranti quali siamo non possiamo non plaudire all'iniziativa della Decca, che nella collana Ace of Clubs, ad un prezzo accessibilissimo, ci mette a disposizione proprio quel raro Oratorio che Mendelssohn scrisse per la città di Birmingham e nella quale fu eseguito il 25 Agosto l846.
Resta per noi un piccolo e affascinante mistero para-musicologico il fascino che il grande profeta solare evidentemente dovette esercitare su quella squallida cittadina industriale (una specie di Campobasso su grande scala) se i suoi musicalissimi abitanti sentirono il bisogno di commissionare nove anni dopo un altro Elia al celebre direttore e compositore Michele Costa. È un inquietante quesito che giriamo al primo solerte critico di tendenza sociologica post-adorniana non riuscendo con i nostri deboli lumi a cogliere il rapporto dialettico tra la produzione di forbici e coltellerie e il fiero nemico di Jezabel e di Achab.
Ci limiteremo pertanto a registrare obbiettivamente il fatto che in una modesta cittadina inglese (e non a Londra o a Dublino) fu allestita la prima esecuzione di questo Elia, con cui l'apollineo Mendelssohn, musicista viziato dalla fortuna, colmato di doni aurei dalle Grazie più di quanto non fosse squassato dal soffio terribile delle Furie, gran signore e supremo dilettante della musica, si accostò per la seconda volta alla Sacre Scritture, dopo aver composto nel 1836 un Paulus, che è arrivato in Italia solo nel 1953. E non si può a questo punto non lodare Gianandrea Gavazzeni per la sua recente ripresa (Aprile 1964) di questo oratorio in un concerto romano che ha avuto accoglienze lietissime di pubblico e di critica. Ma per tornare ad Elia o meglio ad Elijah (che in inglese suona incredibilmente Ilaigia), ad un primo ascolto ci pare che esso si inserisca in uno dei due filoni nei quali il genere dell'oratorio si biforca. Su un versante del sacro monte troviamo Schütz, Bach e Brahms, tutti chiusi nella loro severa corazza polifonica e austeramente ripiegati nella meditazione fervida e in un intimo lirismo che fiorisce, specie nelle arie di Bach, in esempi definitivi e riuscite altissime. Questo filone scorre sotterraneo e ci sembra riconoscerlo solo due secoli dopo nella sovrumana e spoglia grandezza delle due postreme cantate di Webern o nell'affresco di Moses und Aaron. La seconda e più produttiva tendenza prende le mosse dalle gioiose ed estroverse creazioni del musico di Halle ed ha come carattere più evidente il giubilo alleluiatico e la piacevolezza illustrativa. Siamo qui alla Bibbia per i poveri (non c'erano ancora i Fratelli Fabbri), alla divulgazione del verbo sacro in grandi affreschi coloriti e mossi, nei quali tace ormai la voce severa dello storico e scompaiono le pause di fervore religioso dei corali nei quali la Gemeinde si univa agli esecutori, entrando attivamente nel gioco. Il diavolo del teatro fa capolino ad ogni istante a sommo dispetto del Lord Ciambellano che in Inghilterra vegliava geloso affinché non si trascinassero sulle tavole polverose i sacri argomenti. Da Haendel prendono le mosse Haydn con i suoi due oratori così moralistici e biedermeier ante litteram, il Berlioz dell'Infanzia di Cristo e tutta la fioritura dell'Oratorio inglese fino al Sullivan di The Prodigal Song e all'Elgar di The apostles. È un genere narrativo e piacevole in cui al momento giusto si inserisce Mendelssohn con il suo Elijah che può a buon diritto considerarsi cittadino inglese, come The Seasons o il Messia.
Si accennava sopra al dilettantismo di Mendelssohn e sarà bene chiarire che il termine è da intendere in una particolare accezione. È infatti noto come il ricco amburghese fosse un musicista fin troppo esperto ed astuto, grande direttore d'orchestra e fine musicologo. A lui si deve il recupero della Matthäus Passion nel 1829 e basterebbe questo a garantirgli la gratitudine dei posteri. Se si può parlare di un dilettantismo di Mendelssohn, noi lo vedremmo piuttosto in quella sua eterna e un po' sospetta felicità inventiva così priva di sottofondi inquietanti, in quell'essere sempre disposto a tutte le occasioni. Schumann lo esaltò novello Mozart, ma si tratta purtroppo di un Mozart senza il demonismo del Don Giovanni e senza l'orrido della Sinfonia in Sol Minore. È un musicista che ammiriamo e ascoltiamo volentieri, ma che non riusciamo ad amare, in quanto non ci propone mai interrogativi inquietanti. La sua imperturbabile olimpicità di agiato petit-maitre può a volte irritarci. Orbene questi caratteri non sono certo contraddetti da Elia; solo che in questo lavoro, nonostante la consueta lucentezza dell'involucro e la eleganza della confezione, ci pare avvertire un maggiore e più profondo e più sostanziale impegno umano del compositore.
La prima delle due parti in cui l'oratorio si divide è la più convenzionale e specie nella grande ed abilmente impostata scena della sfida di Elia ai sacerdoti di Baal, preceduta dal drammatico scontro con Achab, il modello haendeliano (e soprattutto del Belshazzar) traspare continuamente. Le suggestioni gestuali e teatrali sono continue soprattutto nella condotta delle voci. Non stupisce apprendere che Elia fu rappresentato nel 1923, a Worcester, come dramma musicale, a cura di Charles Manners. Un grande pezzo di teatro è la scena dell'invocazione del popolo per la pioggia, con la voce di fanciulli solisti, che si staglia sullo sfondo del coro.
All'inizio della seconda parte la figura della Regina Jezebel ci mantiene in un clima che con tutte le cautele definiremmo sempre un po' melodrammatico. Il motivo della Regina proterva adoratrice di Baal e persecutrice di Israele doveva affascinare Mendelsson che qualche anno dopo scriverà delle musiche di scena per Athalie.
Ma al momento in cui il profeta solo si rifugia sulla vetta del monte Horeb per sfuggire alla furia di Jezebel, l'ispirazione del musicista prende veramente ala e tutta l'ultima parte dell'oratorio è una grande meditazione sulla solitudine dell'uomo di fronte ai problemi massimi. Elia non è solo. Lo circondano e lo confortano gli angeli (si ascoltino il trio e il coro stupendi all'inizio della quinta facciata) e la Stimmung di questo finale che è unicum nella storia dell'oratorio è quella di una serena accettazione del destino, premiata dal Dio di Israele con la vittoria definitiva sugli infedeli. Abbiamo brevemente sottolineato le tre grandi scene in cui si articola il testo (Elia e i sacerdoti di Baal, Elia e la Regina, Elia sul Monte Horeb) ma non si può dimenticare il breve episodio iniziale della vedova a cui il profeta fa risuscitare il figlio, piccola scena intima o quadretto di genere in cui splende il timbro lucente del soprano Jacqueline Delman, interprete appassionata e rigorosa. Quanto agli altri interpreti non si saprebbe immaginarne di più immedesimati e fervidi. E' questa una edizione autentica e di puro stile che molto deve alla bacchetta sensibile di Joseph Krips e all'apporto dei due cori, dei quali si segnala in modo particolare Io stupefacente coro dei ragazzi della chiesa parrocchiale di Hampstead che sotto la guida di Martindale Sidwell non fanno rimpiangere i piccoli cantori viennesi, per lo smalto delle voci e la limpidezza della emissione. Una lode particolarissima va al tenore George Maran che nella sua prima aria, If with all your hearts you seek Me centra un tono di dolce intimità che ritroviamo con uguale eleganza e rigorosa calibratura, nella deliziosa romanza dei tenori di Sullivan. E non sembri irriverente l'accostamento. La contralto Norma Procter piega una voce caldissima alle sfumature di un'interpretazione che per la tenuta e il livello ricorda la grande Ferrier. Quanto al protagonista, il baritono Bruce Boyce, dotato di voce gradevole e di bello squillo, si cala perfettamente in un personaggio ricchissimo di sfumature psicologiche che vanno dall'ironia e dallo scherno nel dibattito coi sacerdoti di Baal al fervore dell'aria con viola obbligata It is enough, o Lord, nel classico schema tripartito (ABA). Essa è il vero culmine dello spartito e non sfigurerebbe al confronto con le più celebrate pagine di Giovanni Sebastiano.
Tornando alla fisionomia individualissima dell'opera, della quale non ci si stancherebbe mai di illustrare la singolarità, vorremmo segnalarne il carattere prevalentemente intimistico, quasi di oratorio da camera. Infatti Mendelssohn non mira qui ad effetti di grandiosità nei cori o di forte spicco nelle arie. Il suo oratorio è una serie di gemme amorosamente sfaccettate dalla sapiente mano di un prezioso orefice dei suoni, la cui misura è veramente mozartiana. Non c'è la voce dello storico a guidarci nei meandri dell'azione ma entriamo subito e agevolmente in medias res dopo una brevissima introduzione di Elia, seguita da una ouverture. Le arie sono relativamente poche e tendono a confondersi con gli stupendi ariosi (nei quali sono alcune delle più alate riuscite dello spartito) in un tono medio elegiaco ed auletico. Accompagnano caldi gli archi e parsimoniosamente cantano gli strumentini. I tratti descrittivi di marca haendeliana (si pensi alla descrizione delle piaghe nella prima parte di Israele in Egitto) sono relativamente pochi ma discretissimi.
Sarà azzardata l'ipotesi di un influsso diretto di questo oratorio su l'Enfance du Christ di Berlioz (I854)? Comunque ci pare indubbio che questi due piccoli capolavori del romanticismo minore siano molto vicini come atmosfera e ne suggeriremmo un ascolto comparativo.
Nel ringraziare nuovamente la Decca per la sua iniziativa deploriamo la mancanza assoluta di dati storici e di note illustrative, anche se siamo grati per il testo integrale dell'oratorio, che certo non è facile da reperire. L'incisione è buona anche se i cori non hanno un particolare rilievo.
Giulio de Angelis
("Disclub" 9, anno II, luglio 1964)
Nota discografica
Felix Mendelssohn - Elijah, Op. 70
Jacqueline Delman (s), Norma Procter (c), George Maran (t), Bruce Boyce (br), Michael Cunningham (ragazzo - soprano) - London Philharmonic Choir dir. da F. Jackson - London Philharmonic Orchestra dir. da Josef Kríps.
DECCA ACL 220/222 (SERIE ACE OF CLUBS)

lunedì, agosto 11, 2025

I sorci di Barilli

Bruno Barilli (1880-1952)
Tempo fa trovandomi col Maestro Ghedini si venne a par
lare di Brahms e Strawinski e sulle definizioni che di costoro potevano darsi. Ricordo che in proposito egli mi disse: «Veda quel che ne scrisse Bruno Barilli. Legga "Il sorcio nel violino"». Cosi mi diedi subito alla ricerca di quel volume che purtroppo risultò esaurito da tempo, ed introvabile. Neanche a farlo apposta, dopo qualche mese, Vallecchi ristampa tutti gli scritti di Barilli, riunendoli in un volume dal titolo «Il paese del melodramma» e facendoli precedere da una nitida prefazione di Enrico Falqui. Devo dire che niente in questo libro ci lascia delusi tranne il prezzo e quella maledetta mania che aveva Barilli di fare di Verdi la pietra di paragone del tutto. Ma forse dobbiamo credere a De Robertis quando afferma che Verdi fu per Barilli «una torre di dove ferire»? È certo che Barilli non aveva peli sulla lingua se si trattava di demolire, quando non ricorreva a quella eleganza piena di sorprese, basata su un fuoco di fila di aggettivi che solo uno spirito poetico sarebbe capace di sprigionare. E vediamo subito qualche esempio: Brahms: «Costruttore sapiente, autore bucolico e familiare. Si sente in lui la tranquillità del gran mangiatore che ha un grosso cervello da nutrire... Natura dura e massiccia... Severità serena, misura, ordine religioso e moderazione poetica composti insieme con la larghezza un po' tetra d'un nordico riflessivo sono i caratteri che distinguono Brahms dagli altri classici che lo precedono nella storia, e lo superano». La conclusione, per cosi dire, a sorpresa di questo giudizio ha qualcosa di entusiasmante.
Strawinski: «egli aveva nel muoversi, l'aria intristita e pigra di un topo, che ha mangiato l'arsenico».
Casella: «Là dove passa la sua musica, l'erba non rinasce più».
E infine Rubinstein: «Bocca di ranocchio, testa orientale, occhietti rossi d'ebreo, profilo greco tirato per i capelli».
Vivaci ritratti, spiritosi e caricaturali come la sua stessa faccia, inesorabilmente brutta e difficile al sorriso, disarmante. In uno stupendo disegno di Scipione (un pittore che sapeva scavare nell'animo dei personaggi da lui ritratti) Barilli potrebbe essere scambiato per una vecchia signora negata ad ogni propensione per l'indulgenza verso la specie umana. Ma Barilli fu tutt'altro. Era un uomo dotato di troppo buon gusto, intenditore d'arte, viaggiatore (Vallecchi ha ristampato anche il suo «Libro dei viaggi» deliziosissimo), critico, musicista e... poeta in tutte le sue cose e in quelle in cui gli altri si sarebbero invece abbandonati alla comodità della pedanteria accademica e dell'ermetismo.
Si legga quell'impareggiabile ritratto di Bottesini col quale s'inizia il volume. Questo è forse lo scritto più gustoso che sia mai stato dedicato ad un musicista, un rutilare d'immagini, un fuoco artificiale di aggettivi che sbalzano fuori plasticamente la figura del grande virtuoso di contrabbasso. E al povero Bottesini dimenticato da tutti, verrebbe voglia d'innalzare un monumento. E Willi Ferrero? Le pagine dedicate al fanciullo prodigio traboccano d'affetto: ma proprio in queste pagine mi è parso di cogliere un lato oscuro della personalità indubbiamente forte del Barilli, un lato che si presterebbe benissimo ai topi dai quali lo scrittore sembra ossessionato. Egli vede topi dappertutto, parla di topaie, intitola un suo libro «il sorcio nel violino», assimila musicisti a sorci (vedi Strawinski) e sogna sorci che lo assalgono mentre dorme, divorano i suoi manoscritti e infine, da lui scacciati, calano lestamente nel pianoforte come un esercito in ritirata. Il mio sospetto fu poi convalidato dallo stesso Maestro Ghedini il quale, riparlando del Barilli che gli fu amico, mi mostrò la riproduzione di un manoscritto di Schumann, raffigurante un pentagramma costellato di gatti e topi che si rincorrono. «Vede, mi disse, è la pazzia!». Certamente Barilli pazzo non fu, ma l'ipotesi che egli fosse affetto da un qualche complesso, sia pure innocentissimo, non mi pare priva di fondamento. Comunque fa parte della sua arte e per questo mi sento di rispettarlo ancora di più.
Venendo ora alla famosa questione di Verdi e di Puccini, bisogna esser grati al Barilli per aver coniato una gustosa definizione del primo: «ll suo alito ha un sano odor di cipolla», ma il guaio è che, scrivendo di Wagner, egli non riesce ad essere ugualmente originale, appunto perché da bravo verdiano egli è troppo preso dallo spirito di partigianeria. Ma è mai possibile che verdiani e wagneriani non riescano a coesistere senza escludersi reciprocamente? Questo appunto si domandava Furtwaengler in uno scritto che «Disclub» ha pubblicato recentemente, a proposito delle fazioni brahmsiane e bruckneriane. Comunque, Barilli è troppo intelligente per fare dei suoi operisti prediletti oggetto di apologie sperticate! E' un fatto, però, che essendo Barilli un musicista mediocre e forse mancato (ma un critico riuscito) egli non riuscì a frenare il proprio astio elegante verso chi ebbe più fortuna di lui come compositore.
Se il suo libro esordisce in chiave satirica e nello stile di un futurista che prende in giro il futurismo, le ultime pagine sono di una malinconia struggente. Qui assistiamo al decadimento progressivo del suo fisico, alla sua povertà sempre più incalzante, che arriva alla tragica proposta di un suicidio. Leggendo «Il diario di un vegliardo» è difficile non provare un profondo senso di commozione, così come le prime pagine ci hanno fatto ridere di gusto. Un libro, appunto, da leggersi sorridendo, ma con le lacrime agli occhi.
Edward D.R. Neill
("Disclub" 11, anno II, ottobre/novembre 1964)

venerdì, agosto 01, 2025

Scolasticismo

Amedeo Modigliani (1884-1920)
“Ritratto di Jeanne Hébuterne
A Siena, sotto l'occhio puntuto della Torre del Mangia e 
la vigilanza equestre di Guidoriccio da Fogliano, il filo della musica antica e quello della musica moderna hanno trovato il loro punto di giunzione. A questa giunzione ideale, benché avvenuta a Siena, la sola Caterina Benincasa è rimasta estranea, perché se c'è musica nella quale il negro fiore del misticismo non alligni, essa è quella dei musici veneziani del Cinquecento, del Seicento e del Settecento. Resta dimostrato così che tra musica antica e musica moderna c'è affinità perfetta, diretta derivazione di questa da quella. Mai quanto nel fatto della musica di oggi le parole «ritorno alla tradizione», di cui tanto si è abusato in altri campi e in altri momenti, hanno trovato loro giustificazione piena. Si è ritessuto nel mondo dei suoni quell'aristotelismo (nel che Aristotele invero ha così poca colpa) che aveva già informato di sé le combinazioni sonore (non dico sinfonie per non confondere i significati) dei nostri maestri del Cinquecento, del Seicento, del Settecento. La musica è arte per sua natura tardiva (oggi pure che poesia e pittura sono di là dal loro rinascimento e alla soglia di un romanticismo nuovo, la musica per sé giace ancora in piena e angolosa e spinosa e puntuta scolastica) e dopo un rinascimento incerto e presso che inavvertibile, simile alla primavera dei paesi meridionali che passa e non esplode, la musica solo nel tardo Ottocento riesce veramente a rompere il guscio, e dirò meglio il carapace dello scolasticismo, e trova finalmente la sua libertà di coscienza e di esame, il suo libero arbitrio. Il che nelle terre del Nord felicemente la porta a quel romanticismo tutto cuore di velluto, tutto profondo e tenebroso sguardo che empie il nostro animo di malinconia e pensosa dolcezza, ma è deleterio invece alla musica italiana che prima abbassa all'opera buffa, quindi la porta più basso ancora nel melodramma patetico, infine precipita nell'infimo dell'opera verista. Che argomentare da questo? Che ai soli paesi freschi è consentito parlare a cuore aperto, e che alla musica italiana quanto a sé, le conviene non andare in giro senza il busto. E che altro stanno facendo alla musica i nostri alacri maestri d'oggi se non «rimetterle» il busto?
Lo scolasticismo è anzitutto un sistema di difesa, un modo di conservazione, un metodo di imbalsamazione. Lo scolasticismo è per le arti, e in più largo per la vita morale, per la vita intellettuale, quello che il frigidaire è per gli alimenti, l'ingessatura per gli arti fratturati. Oggi lo scolasticismo tesse la sua rete metallica, dispone le sue punte protettive, spande le sue raggelanti correnti incorrompitrici nella pittura e nella musica. Oggi c'è una musica scolastica e una pittura scolastica (non faccio nomi, ma facilmente il lettore potrà trovare gli esempi da sé fra tanta pittura e tanta musica arcaicizzanti, fra tanta pittura e tanta musica neoclassicheggianti, fra tanta pittura e tanta musica stilizzate). Oggi lo scolasticismo fiorisce (ma che fiori rigidi! che gigli di calcestruzzo) tra quelle arti nelle quali la questione tecnica è più vivamente sentita, più baldanzosamente affrontata. Non fiorisce invece nelle lettere d'oggi, chiusa la parentesi breve della «Ronda»; forse perché i letterati d'oggi, voglio dire quelli che hanno argomenti nel cuore e voce da formularli, sono peraltro o addirittura imbelli o troppo debolmente armati di filologiche armi, di gladii latini, di clipei greci da consentirsi il lusso di pugnare scolasticamente senza cadere nel manierato, nel falso, nel ridicolo. Abbiamo detto scolasticismo per i moderni; ma forse bisognava dire neoscolasticismo, e lasciare scolasticismo ai soli antichi. Chi assicura però che anche lo scolasticismo dei Vivaldi, dei Monteverdi, dei Gabrieli nipote e Gabrieli zio non rispondeva agli stessi fini di difesa, di conversazione, di imbalsamazione, di frigidaire, di ingessatura? Per noi questo non lascia dubbio. Dice bene Soffici: anche gli antichi, per quanto antichi, avevano i «loro» antichi.
Allo scolasticismo si arriva sia per comodo, sia per avarizia, sia per disperazione. Ci si può arrivare anche per spirito di obbedienza e amore dell'ordine. Non per nulla scolasticismo è in certo modo sinonimo di cattolicismo. Nessuno in partenza si prefigge lo scolasticismo come meta. Lo scolasticismo come soluzione non appare se non a metà del cammino, sotto il peso degli ostacoli accumulati e davanti alla siepe irsuta delle difficoltà. Allora ci si volta a guardare a destra e a sinistra, si trema all'idea di doversi dichiarare vinti o addirittura di dover tornare indietro, e si è ben felici di trovare la traversa ma più comoda, più facile via dello scolasticismo, invitante e tentatrice: questo ripiego, ma che la sua aria saputa e grave rende tanto più accettabile e gradito. Mi son divertito una volta a cercare per quali vie Amedeo Modigliani arrivò a quello stile che lo ha reso celebre e amato; e trovai che Modigliani in principio tendeva a una rappresentazione naturalisticamente compiuta ma difficile, e che soltanto l'accumularsi delle difficoltà e l'incapacità di sormontarle lo determinarono a fermarsi a mezza strada e ad accettare come meta ciò che in principio non doveva essere se non una semplice tappa. Come se un sarto incapace di portare gli abiti a una forma compiuta, ci convincesse con scolastici argomenti che ben meglio per noi è indossare abiti notomizzati dalle cuciture bianche dell'imbastitura, con una manica sola e questa pure appuntata con gli spilli. In fondo, è per incapacità che si arriva allo stile: segno questo pure della tragica condizione dell'uomo. Certuni troveranno strano che io chiami scolasticismo la maniera di Amedeo Modigliani, ma la parola è tanto propria che lo scolasticismo di Modigliani «ha fatto scuola».
I mezzi, voglio dire il tempo e la pazienza, mi mancano di cercare documenti ed eruditi esempi per dimostrare che lo scolasticismo dei musici del Settecento, del Seicento, del Cinquecento risponde alle medesime ragioni dello scolasticismo di Amedeo Modigliani. Ma della identità di queste ragioni così lontane le une dalle altre io non dubito affatto. Senza dire che in musica bisogna tenere conto soprattutto dei mezzi esteriori, ossia della condizione meccanica degli strumenti musicali: ragione prima della evoluzione musicale. Come prova mi basta il carattere guidato, comandato, ornamentale di quelle musiche («musica a terrazze» è espressivamente chiamato il modo del Concerto Grosso); il loro «timor di Dio»il loro tono laudativo e osannante, la loro insistenza affermativa; il loro perpetuo «», più avverbio in questo caso che ultima delle sette note; il loro passo aristotelico (di quell'aristotelismo che per suo comodo inventò la Chiesa); il loro biancore cattolico, nemico così di ogni ombra come di ogni fessura per cui un dubbio, un perché, una delle oscure e profonde ragioni custodite dalle Madri possa farsi strada; la loro ripugnanza a mischiarsi alle faccende umane, la loro cura a evitare il dramma e soprattutto i motivi psichici del dramma (unica eccezione la musica di Bonporti, rivelazione di questa recente Settimana Senese, forse perché Bonporti è trentino e dunque vicino all'anima settentrionale - del che parleremo un'altra volta); a rimanere nell'aura chiara e generica di un ipotetico Paradiso Terrestre; a evitare il problema del male.
Quale prudenza e quale fiuto! Il giorno che i musici italiani vollero dare ascolto alla voce del male, la musica italiana cominciò a precipitare.
Guardare al male è per la musica italiana peccato, e, punita, essa precipita come il fulminato Lucifero. La musica italiana, come la più semplice delle spose italiane, esiste per la sua innocenza e cessa di essere non appena fa tanto di buttare un occhio nei segreti del bene e del male.
Perché distinguere dunque fra antichi e moderni, magnificare quelli e vilipendere questi se entrambi mirano a un fine solo, cioè a dire a «salvarsi» per mezzo della scolastica e, per mezzo della scolastica, edificare con scarsi mezzi un edificio dignitoso? (Si pensi per contrasto al1'assurdo di un Dostoevskij, di un Ariosto, di un Böcklin, di artisti «di grandi mezzi» che cercassero forza e salvezza nello scolasticismo!)
Il critico di un quotidiano ha visto un segno della presente incongruenza musicale nel fatto che Casella, che ingenuamente egli considera «avanguardista» e «futurista», abbia dovuto battere il tempo, nel Salmo di Claudio Monteverdi, a ben diciassette cadenze perfette. Ma l'incongruenza dov'è? Il tono della musica di Casella è ancora quello della musica di Monteverdi, con quel solo arrochimento in più che richiedono i succhi gastrici di uno stomaco moderno; e simile pure è la forma, quel tanto di tremolante in più delle figure riflesse nell'acqua.
Alberto Savinio
originale su "Oggi", 20 settembre 1941
(in "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, 1977)

martedì, luglio 22, 2025

Gustav Mahler / Dmitri Shostakovich

ECM New Series 2024
L'idea di accostare l'Adagio della Decima Sinfonia di Gustav Mahler e la Quattordicesima Sinfonia di Dmitri Shostakovich non è casuale. Non solo sono entrambe opere tarde, ma esiste anche una profonda affinità interiore tra le composizioni. La Decima Sinfonia, del 1910, è l'ultima opera incompiuta di Gustav Mahler. Dmitri Shostakovich avrebbe scritto un'altra sinfonia due anni dopo la Quattordicesima, ma nel 1969, durante un periodo di grave malattia, lavorò con la ferma aspettativa di concludere la sua sinfonia con questa.
L'idea dell'addio e della morte collega entrambe le opere. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, intellettuali e artisti si confrontarono con questo tema in modo particolarmente intenso, e questo tema gioca un ruolo centrale nell'opera di Mahler. Nella sua opera, egli risponde alla domanda sul senso della vita in modi molto diversi. La Seconda Sinfonia culmina nell'idea di resurrezione, mentre le battute finali della Sesta stroncano sul nascere ogni speranza di salvezza. "Il Canto della Terra" si conclude con un "addio" che interpreta la sera della vita come una fase di un ciclo naturale.
L'Adagio della Decima Sinfonia costituisce il primo movimento di una sinfonia in cinque movimenti, incompiuta, scritta per una grande orchestra sinfonica con fiati tripartiti. Nel 1971, il direttore d'orchestra Hans Stadlmair preparò un arrangiamento per archi dell'Adagio per la München Chamber Orchestra, che Gidon Kremer e la Kremerata hanno ora ampliato. Nuovi arrangiamenti di opere di Mahler erano già stati realizzati negli anni '20; ad esempio, nel 1923, l'allievo di Schönberg Erwin Stein arrangiò la Quarta Sinfonia per ensemble da camera, e Arnold Schönberg arrangiò una versione ridotta di "Das Lied von der Erde", completata da Rainer Riehn nel 1981. Mentre negli anni economicamente difficili del dopoguerra, tali arrangiamenti per piccoli ensemble erano in gran parte limitati finanziariamente, oggi Gidon Kremer è semplicemente guidato dal desiderio di poter eseguire una delle opere più brillanti di Gustav Mahler con la sua Kremerata Baltica. Considerata la grande abilità strumentale di Mahler, la giovane orchestra da camera si trova ad affrontare una sfida ardua.
Sebbene le parole di Alban Berg in una lettera alla moglie Helene Nahowski si riferissero al primo movimento della Nona Sinfonia, esse catturano ugualmente l'atmosfera dell'Adagio della Decima: "Il primo movimento è... l'espressione di un amore inaudito per questa terra, il desiderio di viverci in pace, di goderne, la natura, fino in fondo, prima che sopraggiunga la morte. Perché giunge inesorabile". Il tema dell'addio, ricorrente anche nelle precedenti sinfonie di Mahler, qui assume un'importanza centrale con ancora maggiore intensità.
Nell'Adagio della Decima Sinfonia, l'inno alla vita è interrotto da due improvvisi culmini. Il primo – un idiosincratico memento mori – evoca associazioni con i servizi funebri in chiesa. Risuonano accordi tutti rigorosi e sostenuti, prima che il motivo dell'addio riappaia e continui a svolgersi. Il secondo culmine può essere descritto come un "finis": un unisono penetrante, tollerante alle contraddizioni, che precede ogni cosa nel registro acuto che contrasta un accordo dissonante di dieci note dalla struttura inedita. Il compositore Boris Tishchenko scrive: "L'accordo più terribile di tutta la musica... e la punta dell'iceberg... non è come un infarto?". Questa metafora della malattia è diventata un simbolo di sventura nel XX secolo, riferendosi non solo a una singola vita umana, ma al mondo intero. Dopo questo sfogo, l'Adagio di Mahler torna al flusso della vita in estinzione. Il movimento si conclude con un'energia melodica morente, carica di rassegnazione.
La Quattordicesima Sinfonia di Dmitrij Shostakovich per soprano, basso e orchestra da camera con percussioni fu completata il 2 marzo 1969. Poche settimane dopo, il compositore scrisse a Isaak Glikman: "La Quattordicesima Sinfonia... è una pietra miliare per me. Tutto ciò che ho scritto negli ultimi anni è stata una preparazione per quest'opera". Nella stessa lettera, spiegò la selezione delle poesie: "...Mi sono reso conto che ci sono temi eternamente attuali, problemi eternamente attuali. Tra questi ci sono l'amore e la morte... Alla vigilia del mio ricovero in ospedale, ho ascoltato i Canti e Danze della Morte di Mussorgsky, che finalmente mi hanno spinto a considerare la morte". Shostakovich scrisse la sinfonia durante un ricovero ospedaliero di un mese; lì selezionò anche poesie di Federico García Lorca, Guillaume Apollinaire, Wilhelm Küchelbecker e Rainer Maria Rilke, alcune delle quali adattate e abbreviate. A seconda del gusto dell'ascoltatore, gli undici movimenti possono essere raggruppati in vari modi. Il compositore stesso suggerì di raggrupparli in quattro sezioni: 1-4, 5-6, 7-8 e 9-11. Dedicando la sinfonia a Benjamin Britten, Shostakovich rispose alla dedica del compositore inglese della sua parabola biblica "Il figliol prodigo" a Shostakovich.
La prima ufficiale ebbe luogo il 29 settembre 1969 a Leningrado, sotto la direzione di Rudolf Barshai, con Galina Vishnevskaya ed Evgenij Vladimirov come solisti vocali. Tuttavia, la "vita concertistica" dell'opera era già iniziata il 21 giugno dello stesso anno nella Sala Piccola del Conservatorio di Mosca, con una "specie di prova generale", come definì Shostakovich questa esecuzione. In realtà, si trattò di una prima "a porte chiuse" della sinfonia, sotto la direzione di Barshai. La sinfonia ebbe un profondo impatto sul pubblico. La potenza evocativa della musica innescò un evento sconvolgente: uno degli ascoltatori, Pavel Apostolov, membro del Comitato centrale del partito e ideatore delle campagne diffamatorie retoriche contro Shostakovich, si ammalò improvvisamente e morì in sala mentre lo spettacolo era ancora in corso.
Sebbene la musica avesse generalmente scosso emotivamente gli ascoltatori, si levarono anche voci che non riuscivano a conciliarsi con il rifiuto ateo dell'idea di salvezza nella vita eterna. "Death is great" di Rilke nell'ultimo movimento suscitò reazioni particolarmente negative. Alcuni ascoltatori furono infastiditi dal fatto che il testo, con i suoi dettagli a volte sconvolgenti, come in "The Suicide", offuscasse la bellezza della musica. Numerose dichiarazioni di Shostakovich di quel periodo testimoniano il suo orrore per la morte, che egli intendeva come "l'agonia senza fine del morire" (Genrich Orlov).
Nelle sue riflessioni sulla sinfonia, tuttavia, Shostakovich omise qualcosa di essenziale: le prove compositive che lo affascinavano. In quegli anni, Shostakovich si interessò alle questioni strutturali della forma sinfonica su larga scala e alle loro conseguenze sulle tecniche di orchestrazione e sulla strumentazione. La concezione di un ciclo sinfonico interamente vocale risale senza dubbio al Das Lied von der Erde di Mahler, che Shostakovich teneva in particolare considerazione. Aveva già adottato questo modello quando orchestrò i Songs and Dances of Death di Mussorgsky nel 1962. Sebbene da giovane potesse essere interessato alle idee innovative di Schönberg, la sua tecnica dodecafonica non ebbe alcuna influenza diretta su di lui. Tuttavia, quando studiò le partiture di Schönberg nel 1926, potrebbe aver rivolto la sua attenzione agli ensemble sperimentali del Pierrot Lunaire. In "Suicide", ad esempio, i dialoghi scarsamente orchestrati tra soprano e violoncello solista, o tra contrabbasso solista e soprano, ricordano "Der kranke Mond" dal Pierrot Lunaire di Schönberg, con il suo dialogo tra soprano e flauto. Shostakovich era certamente affascinato da una nuova idea di orchestrazione: la combinazione di archi e percussioni. (Rodion Shchedrin aveva probabilmente già sperimentato una simile combinazione indipendentemente da Shostakovich nella sua Suite Carmen del 1967.)
Ogni movimento della Quattordicesima Sinfonia è progettato in modo completamente individuale in termini di timbro, grazie alle diverse combinazioni di strumenti a corda e a percussione, nonché al trattamento estremamente espressivo degli archi. L'unità interiore di questo ciclo estremamente contrastante è creata dall'uso di topoi musicali attorno al tema della morte, con Shostakovich che abbraccia numerosi simboli della morte provenienti dalla storia della musica: il suono del violino, questo attributo popolare della morte, determina (analogamente allo Scherzo della Quarta Sinfonia) il fascino inquietante della "Malagueña", che inizia con i cori "La morte entrò e uscì". Il suono della grande campana, che ricorda un corteo funebre, squarcia il silenzio improvviso nei momenti culminanti de "The Suicide" e "Loreley". Lo xilofono, anch'esso simbolo musicale della morte, appare in varie forme: una volta in una danza grottescamente glamour con tre tamburi ("On the Alert"), a volte in ensemble con percussioni "asciutte" senza coro, e in un duetto "surreale" di risate con il soprano. La sfera della morte è evocata anche attraverso il timbro: in "At the Santé Jail", un fugato per archi inizia con la frase "Qui la tomba si dispiega sopra di me, qui sono morto per tutti", in cui le corde vengono percosse col legno dall'archetto. L'effetto sonoro di questo stile esecutivo trasporta l'ascoltatore in un mondo di esistenza opprimente e senza vita.
Il finale della sinfonia, tuttavia, è un'ispirazione originale di Shostakovich: invece di una cadenza tradizionale o di un riflusso progressivo nel senso di "addio", gli archi risuonano con un movimento inarrestabile e crescente, al termine del quale è concepibile solo una pausa, un salto nell'abisso, per così dire.
Inna Barsova
(translation: Heinrich von Trotta)