Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, maggio 01, 2024

Francis Poulenc: Les dialogues des Carmélites

Milano, 26 gennaio 1957
I tedeschi, che trovano sempre una parola per tutto, la chiamano Literaturoper. Che sarebbe come a dire un melodramma il cui testo non è più un libretto (un derivato, un surrogato) ma l’opera letteraria stessa. Il rifiuto di ogni mediazione librettistica corrisponde naturalmente a un gesto orgoglioso e liberatorio: abbandonati i complessi d’inferiorità del passato, l’opera si sente ora alla stessa altezza dei capolavori letterari. La prima Literaturoper a far scuola fu Pelléas et Mélisande (1902) in cui Debussy realizzò una versione musicale della famosa pièce di Maeterlinck. Seguì Wozzeck di Alban Berg (1925), un’intonazione del dramma di Büchner da poco riscoperto. Per capire il senso di questo nuovo incontro tra musica e letteratura, si legga quanto scrive lo stesso Poulenc a proposito dei Dialogues des Carmélites: «Conoscevo […] il dramma di Bernanos, che avevo letto, riletto e visto due volte, ma non avevo alcuna idea del suo ritmo verbale, particolare che per me è capitale» (corsivo mio). Dunque non è tanto nelle situazioni o nei personaggi che si trova la chiave della possibile trasformazione in opera, quanto piuttosto nelle parole, nel «ritmo verbale» di Bernanos. E sarà proprio la capacità di rendere il testo bernanosiano in modo così trasparente e discreto l’arma vincente di Poulenc. Va da sé che un intervento di modifica (già abbondantemente usato da Debussy) è ammesso nella Literaturoper: mi riferisco ai tagli di porzioni anche significative del testo originario. Così ad esempio Poulenc salta a piè pari il prologo di Bernanos (due scene di sole didascalie) col panico della folla, la nascita di Blanche e la morte della marchesa. Un antefatto recuperato poi per bocca del Marchese de la Force che nel primo quadro dell’opera racconta l’episodio di quindici anni prima usando sostanzialmente le parole della didascalia del prologo bernanosiano. Ma nonostante questa e altre varianti, il risultato è una musica che sembra scaturire dal testo stesso di Bernanos. Una musica che fonda la sua ragion d’essere in una speciale sensibilità letteraria. Non a caso, nel Journal de mes mélodies, Poulenc scrive: «Se sulla mia tomba comparisse l’epitaffio: Qui giace Francis Poulenc, il musicista di Apollinaire e di Éluard, credo che sarebbe il mio più bel titolo di gloria».

Fu il direttore della Ricordi, Guido Valcarenghi, a proporre i Dialoghi delle Carmelitane a Poulenc nel 1953. La première mondiale dell’opera sarebbe avvenuta, in italiano, al Teatro alla Scala il 26 gennaio 1957 sotto la direzione di Nino Sanzogno con un cast che comprendeva Virginia Zeani (Bianca), Gianna Pederzini (la prima Priora), Leyla Gencer (la seconda Priora), Gigliola Frazzoni (Suor Maria), Eugenia Ratti (Costanza). In francese, l’opera venne rappresentata per la prima volta all’Opéra di Parigi il 21 giugno 1957. Poulenc dedicò la sua partitura «Alla memoria di mia madre che mi ha rivelato la musica, di Debussy che mi ha dato il gusto di scriverla, di Monteverdi, Verdi e Musorgskij che mi sono stati, qui, di modello». Non è impossibile stabilire il lascito dei quattro musicisti citati: nelle lettere di Poulenc al baritono Pierre Bernac si capisce che Verdi fu tirato in ballo per il trattamento delle voci («I dischi di Aida mi incantano; ho capito la tessitura del contralto. Molto utile per la morte. I suoni filati della Tebaldi sono l’ideale per la seconda Priora [che sarebbe poi stata interpretata da Leyla Gencer]»). Quanto a Monteverdi e Musorgskij, è interessante citare un’altra lettera di Poulenc (a Henri Sauguet): «Nei Dialoghi è lo spirito di Monteverdi e Musorgskij che mi guida […]. Ho sempre pensato, ad esempio, che l’aria di soprano del Ballo delle ingrate sia proprio il modello di un’aria operistica d’una straordinaria intensità in cui era necessario far comprendere le parole a ogni costo». D’altra parte il modalismo e il clima sonoro dei canti religiosi (il Requiem per la morte della prima Priora, l’Ave Maria al termine della cerimonia di obbedienza alla nuova Superiora, l’Ave verum del Cappellano durante il suo ultimo officio per le carmelitane e il famoso Salve Regina cantato dalle Suore durante l’esecuzione) ha qualcosa di russo-ortodosso, come ha notato Gianfranco Vinay, il che rafforza ovviamente la presenza del modello musorgskiano. Ma è evidente che il vero riferimento, quello più profondo, non solo musicalmente ma anche drammaturgicamente, è Debussy. Il rifiuto dell’effetto che nasce dai contrasti drammatici, l’attenzione ossessiva al «ritmo verbale» del testo, la tematizzazione del silenzio e l’estetica del dépouillement stanno tutti sotto il segno di Debussy. A ciò si deve aggiungere l’uso (discreto ma fondamentale) dei Leitmotive di tipo simbolico-allusivo (non i “motivi conduttori” alla maniera di Wagner) che creano correspondances misteriose e formano un tessuto connettivo tanto musicale quanto narrativo. Così il primo tema che apre l’opera coi suoi staccati ascendenti (così ansiogeni), tema di solito associato al Marchese de la Force, ritorna durante il colloquio di Blanche col fratello (il Chevalier) nel parlatorio del convento, quando quest’ultimo dice alla sorella che «nostro padre ritiene che qui voi non siate al sicuro». Lo stesso tema ritornerà alla fine nella biblioteca del Marchese devastata e «completamente saccheggiata», durante la scena tra Blanche e Mère Marie, allorché la figlia sempre più ossessionata dalla paura («Je suis née dans la peur») – paura che è forse la vera protagonista dell’opera (e che viene sonorizzata in modo mirabile da Poulenc) – ricorda il padre morto ghigliottinato. Il tutto, però, senza troppo rilievo e come inserito in un continuum sonoro da cui i temi sembrano uscire e rientrare… Si sa, per lasciare l’ultima parola a Debussy, «la musica è per l’inesprimibile. Deve uscire dall’ombra ed essere discreta».
Emilio Sala
(Testo tratto dal programma di sala del Teatro alla Scala, Milano, 17 maggio 2000)

Atto primo
Quadro primo - La biblioteca del Marchese de la Force, a Parigi, nell’aprile del 1789. Il Cavaliere de la Force entra in modo irruente nella biblioteca, risvegliando il padre appisolato in una poltrona. Si è permesso di disturbarlo perché è preoccupato per la sorte di Blanche, sua sorella, la cui carrozza teme possa essere stata bloccata da una folla tumultuante. Una carrozza, un tumulto ridestano immediatamente nel Marchese il ricordo della moglie, morta dopo aver dato alla luce Blanche in seguito allo spavento provocato dalla folla che aveva preso d’assalto la carrozza. L’inquietudine del Cavaliere è accresciuta dal fatto che la sorella è per natura estremamente impressionabile e paurosa. Mentre il Marchese cerca di minimizzare le preoccupazioni del figlio, giunge Blanche sana e salva. Spossata dal timore che la folla potesse aggredirla ma anche dalla lunghezza di una funzione religiosa alla quale ha partecipato, chiede al padre il permesso di andarsi a riposare prima di cena. Padre e figlio, dopo aver scambiato qualche battuta, sono sorpresi da un grido di terrore: Blanche si è spaventata alla vista di un’ombra sul muro, proiettata dalla fiaccola del domestico. Ritorna quindi dal padre, e dichiarandosi inadatta e troppo fragile per affrontare la vita mondana, gli chiede il permesso di entrare nel Carmelo, con la speranza che, abbandonando e sacrificando tutto, Dio le restituisca l’onore macchiato dalla sua pavidità.
Quadro secondo - Il parlatoio del Carmelo di Compiègne, qualche settimana dopo. Dietro una grata che la separa dalla Madre Superiora, una suora anziana e malata, Blanche risponde alle domande che le vengono rivolte per saggiare la forza e la serietà della sua vocazione. Blanche risponde che ciò che la spinge a prendere gli ordini religiosi è l’attrazione esercitata da una vita eroica. Al che la Superiora, dopo aver denunciato la natura illusoria di un eroismo così concepito, afferma che l’unica ragion d’essere del Carmelo è la preghiera. Blanche si dichiara disposta ad affrontare le prove più dure pur di entrare in convento perché non le resta altro rifugio. La Madre Superiora le fa allora notare che la Regola non è un rifugio, che non è essa a salvaguardare le carmelitane, ma le carmelitane a osservare la Regola. Le chiede quindi se abbia pensato a un nome da religiosa se verrà ammessa come novizia. Blanche, con grande sorpresa della Superiora, risponde che vorrebbe chiamarsi Suor Blanche dell’Agonia di Cristo.
Quadro terzo - La dispensa all’interno del convento. Blanche e un’altra novizia, Constance, stanno occupandosi delle provvigioni. Constance, una giovane vivace e piena di gioia di vivere, chiacchiera incessantemente di argomenti frivoli e piacevoli, come della festa di matrimonio alla quale ha partecipato prima di entrare in convento. Blanche la rimprovera di tanta gaiezza mentre la Madre Superiora è in fin di vita. Constance, allora, in uno slancio di generosità, si dichiara disposta a offrire a Dio la sua vita in cambio di quella della Superiora, e sollecita a fare lo stesso Blanche, che bolla di infantilismo un atteggiamento simile. Constance dice di essere di parere contrario, di avere sempre desiderato di morire giovane, e di essere anzi certa che il suo desiderio sarà esaudito: la prima volta che l’ha incontrata, ha avuto il presentimento che sarebbero morte entrambe, ancora giovani, lo stesso giorno e la stessa ora, senza sapere di che giorno e di che ora si tratta.
Quadro quartoInfermeria del convento. La Madre Superiora, a letto, è terrorizzata dalla morte che sente approssimarsi sempre più. Le assidue meditazioni nel corso dei decenni che ha passato in convento non le sono servite ad attenuare lo sconforto e la paura presente. A Suor Marie, che la sta assistendo, raccomanda Suor Blanche dell’Agonia di Cristo, la novizia per cui è maggiormente preoccupata. È rimasta colpita dal fatto che abbia scelto lo stesso nome da religiosa che avrebbe voluto scegliere lei stessa quand’era entrata in convento; ma poi vi aveva rinunciato, messa in guardia dalla Superiora di quel tempo che «chi entra nel Getsemani non ne esce più». A Suor Blanche, che ha mandato a chiamare, la Superiora dice che avrebbe volentieri sacrificato la vita per salvarla dai pericoli cui è esposta, ma nell’ora presente non può offrirle che la sua morte, una povera morte. Dopo averle raccomandato la semplicità e la fiducia in Dio, la benedice e la congeda. Ritorna Suor Marie con il medico al quale la Superiora chiede un altro po’ di tonico per poter trovare la forza necessaria a congedarsi dalle sue consorelle. Suor Marie la invita a non preoccuparsi più di altri all’infuori di Dio. Al che la Superiora replica che non sta a lei di preoccuparsi di Lui, ma a Lui piuttosto di preoccuparsi di lei. Suor Marie fa allora chiudere le finestre per evitare che le consorelle possano essere scandalizzate dalla Madre Superiora delirante, che subito dopo ha una visione della cappella del convento profanata e insanguinata. Suor Marie dispone che la vita conventuale si svolga come d’abitudine e fa avvertire le consorelle che non potranno vedere la Superiora nel corso della giornata. Solo Blanche rientra e si avvicina al letto della Superiora che, dopo averle fatto una raccomandazione e aver pronunciato ancora qualche parola sconnessa, muore. Blanche cade in ginocchio, singhiozzando.

Atto secondo
Quadro primo - Nella cappella. Blanche e Constance vegliano il corpo della Madre Superiora. Constance esce a cercare le consorelle che devono darle il cambio. Blanche, spaventata dal fatto di rimanere sola con il cadavere, rabbrividisce e si precipita verso la porta nell’esatto momento in cui entra Suor Marie. Cerca di scusarsi per aver abbandonato il suo posto, ma Suor Marie, imputando più al freddo che alla paura i brividi della novizia, la accompagna alla cella dispensandola dalle preghiere e consigliandola di dormire e di non pensare più all’inadempienza. Domani mattina ne proverà dolore e potrà allora chiedere perdono a Dio.
Interludio primo - Constance e Blanche portano delle composizioni di fiori sulla tomba della Madre Superiora. Constance coi fiori restanti propone di fare un mazzo da offrire alla nuova Superiora. Blanche si chiede se Suor Marie ami i fiori. Constance desidererebbe che proprio lei fosse eletta Superiora, al che Blanche la rimprovera della sua ingenua speranza che Dio esaudisca sempre i suoi desideri. Constance le risponde che magari la logica divina consiste proprio in ciò che gli uomini intendono per casualità. Riflette quindi sulla morte della Superiora. La sua agonia le è parsa troppo lunga e faticosa: come se avesse vissuto una morte che non era la sua, né più né meno come quando per sbaglio si indossa un vestito confezionato su misura per un altro. Quell’altro, al momento di morire, sarà colpito della serenità con cui andrà incontro alla morte: non si muore ciascuno per sé, ma gli uni per gli altri e anche gli uni al posto degli altri.
Quadro secondo - Sala capitolare. L’intera comunità è riunita per giurare obbedienza alla nuova Madre Superiora, che non è Suor Marie, come tutte si aspettavano, ma Suor Marie-Thérèse di Sant’Agostino (Madame Lidoine, secondo lo stato civile), di origini modeste, che con parole semplici predica le virtù essenziali di una carmelitana: la buona volontà, la pazienza e lo spirito di conciliazione. La preghiera è il loro compito principale e nulla deve distrarle da essa; neppure il pensiero del martirio: la preghiera è un dovere, il martirio una ricompensa. L’intera comunità intona quindi l’Ave Maria.
Interludio secondo - Qualcuno suona insistentemente alla porta del convento. È il Cavaliere de la Force che, prima di partire in terra straniera per combattere a fianco dell’esercito controrivoluzionario, vuole parlare a sua sorella. La Madre Superiora, vista l’eccezionalità della situazione e dei tempi, concede questo strappo alla Regola, ma desidera che Madre Marie assista al colloquio.
Quadro terzo - Il parlatoio del convento. Il Cavaliere de la Force cerca di convincere Blanche a ritornare a casa perché suo padre stima che non sia più sicura in convento. Blanche replica dicendo che non si è mai sentita così sicura come ora, ma il fratello, conoscendola a fondo, reputa illusorio questo senso di sicurezza, conseguenza non tanto della paura della realtà esterna, del mondo, ma della paura della paura: bisogna saper rischiare la paura come si rischia la morte; il vero coraggio sta in questo rischio. Blanche cerca di convincerlo che la vita monastica l’ha cambiata. È ormai una figlia del Carmelo che soffrirà anche per lui: anche lei ha una battaglia da combattere, con i suoi rischi e i suoi pericoli. Il Cavaliere de la Force, prima di uscire, la osserva con uno lungo sguardo indefinibile. Blanche, spossata da quel confronto, si sostiene alla grata per non cadere, assalita dal dubbio di aver peccato d’orgoglio. Suor Marie la invita a ricomporsi soggiungendo che l’unico modo per vincere il proprio orgoglio è di salire più in alto di esso.
Quadro quarto - La sacrestia del convento. Il Cappellano ha finito di officiare la sua ultima messa nel Carmelo. Intona l’Ave verum cantato da tutta la comunità. Ormai messo al bando, deve nascondersi e camuffarsi. Constance depreca la codardia dei francesi che permettono che i preti siano perseguitati. Le consorelle si sforzano di comprendere in qual modo la paura si impossessi a poco a poco di tutte le coscienze. La Madre Superiora interviene dicendo che, quando i sacerdoti vengono a mancare, i màrtiri abbondano, e così si ristabilisce l’equilibrio della Grazia. Suor Marie coglie la palla al balzo e propone che le carmelitane si votino al martirio perché la Francia possa ancora avere dei sacerdoti. La Superiora controbatte che è stata fraintesa, e che comunque non sta a loro decidere se i loro nomi debbano comparire sul breviario. Qualcuno suona e bussa violentemente alla porta del convento. Il Cappellano deve nascondersi per non compromettere le monache, le quali, spaventate, si ammassano tutte in un canto della stanza. Suor Marie va ad aprire e tiene testa con molta fermezza e sangue freddo ai commissari rivoluzionari che ordinano alle carmelitane di sgombrare il convento entro ottobre (1792). Alla fine del contraddittorio, il Primo commissario confida segretamente alla suora di essere un ex sacrestano, fratello di latte del vicario, costretto, di questi tempi, a «urlare con i lupi». Per dimostrare la sua buona fede, la avverte di diffidare del fabbro Blancart, un delatore. I commissari e la folla escono. Suor Jeanne avverte le consorelle che la Madre Superiora deve partire per Parigi. Quindi dà a Blanche, rimasta fino ad allora appollaiata su una seggiola come un uccello ferito, la statuetta del Piccolo Re Glorioso, dicendo che le infonderà coraggio. Spaventata dal canto del Ça ira intonato dalla folla, all’esterno del convento, lascia cadere la statuetta, che si fracassa al suolo, soggiungendo: «Oh! il Piccolo Re è morto! Non ci resta che l’Agnello di Dio».

Atto terzo
Quadro primo - La cappella del Carmelo completamente devastata. Alla presenza del Cappellano, l’intera comunità è riunita, tranne la Madre Superiora, occupata a Parigi. Suor Marie propone alle consorelle di votarsi tutte insieme al martirio «per meritare la sopravvivenza del Carmelo e la salvezza della Patria comune». Aggiunge però che, vista l’importanza dell’impegno e della responsabilità individuale, il voto avverrà a scrutinio segreto, e dovrà essere unanime: basterà un solo voto contrario a invalidarlo. Il Cappellano si presta a fare da scrutatore e, dopo aver raccolto i foglietti, comunica a bassa voce il risultato a Suor Marie, che dichiara esservi un voto contrario. Tutti gli sguardi si affissano su Blanche, al che Suor Constance afferma di esser responsabile del voto contrario, ma di volerlo ritirare associandosi alla decisione comune. Il Cappellano allora decide che, per sacralizzare la loro intenzione, tutte le carmelitane pronuncino il voto, due alla volta, giurando sul Vangelo, a cominciare dalle più giovani. Suor Blanche e Suor Constance giurano per prime, dopodiché, approfittando della confusione delle consorelle che compiono lo stesso rito, Blanche fugge via.
Interludio primo - Un Ufficiale rivoluzionario si felicita con le carmelitane, che stanno lasciando il convento in abiti civili, per il loro senso della disciplina. Le avverte che la nazione le terrà d’occhio e che non dovranno aver contatti con membri del clero e con controrivoluzionari. La Madre Superiora, rimasta sola con le consorelle, invia una di loro dal Cappellano per avvertirlo che sarebbe troppo pericoloso officiare la messa in segreto, com’era convenuto. Suor Marie, sollecitata a esprimere il suo parere, ricorda alla Superiora che tutte queste cautele mal si addicono a una comunità che si è votata al martirio. Al che la Superiora replica che, se ognuna di loro risponderà del suo voto di fronte a Dio, lei dovrà rispondere per tutte e che è sua abitudine tenere i conti in regola.
Quadro secondo - La biblioteca del Marchese de la Force, saccheggiata e trasformatasi in un grande ripostiglio multiuso. Blanche, in vesti civili, divenuta la serva dei nuovi inquilini, è ai fornelli. Entra improvvisamente Suor Marie. Anche lei in abiti civili, è venuta a cercarla per metterla in salvo. Blanche replica di sentirsi sicura dov’è perché, caduta così in basso, nessuno si occuperà più di lei. Nel rispondere a Suor Marie si è distratta, e rischia di far bruciare il ragù. Suor Marie interviene a tempo, ma Blanche è in preda a una crisi di nervi. L’unica persona che poteva capirla, suo padre, è stato ghigliottinato. Nata nella paura, trova giusto che ora sconti la sua debolezza di carattere con il disprezzo degli altri. Suor Marie replica che lo sconforto non deriva dal disprezzo degli altri, ma da quello di sé medesimi. Rivolgendosi a Blanche con il suo nome da religiosa, il che la scuote immediatamente dalla sua angoscia, la invita a rifugiarsi temporaneamente a Parigi da persone fidate di cui le lascia l’indirizzo. La voce della nuova padrona di casa ingiunge a Blanche di andare a fare le compere. Dopodiché, Suor Marie se ne va, convinta che Blanche seguirà il suo consiglio.
Interludio secondo - Una strada di Parigi. Voci di passanti, fra cui quella di una Vecchia che parla dell’arresto delle carmelitane di Compiègne e chiede poi a Blanche se abbia dei parenti laggiù. Blanche nega, visibilmente scossa dalla notizia. Poi, atteggiandosi come chi ha preso una decisione disperata, se ne va via veloce.
Quadro terzo - Una cella della Conciergerie. La Madre Superiora cerca di consolare le carmelitane dopo la prima notte di prigione. Afferma inoltre di condividere il voto di martirio che hanno pronunciato in sua assenza e di assumere ora su di sé la responsabilità del suo adempimento. Suor Constance le chiede se abbia notizie di Blanche. Ricevuta una risposta negativa, dice di esser sicura che Blanche ritornerà, perché durante la notte ne ha avuto la premonizione in sogno. Le consorelle, a eccezione della Madre Superiora, scoppiano a ridere. Entra quindi il Carceriere per avvertirle che il Tribunale rivoluzionario le ha condannate tutte a morte. Quando esce, la Madre Superiora le benedice e consacra a Dio il voto da cui tutte sono ora legate.
Interludio terzo - Il Cappellano incontra Suor Marie in una strada parigina e l’avverte che tutte le consorelle sono state condannate a morte. Suor Marie vuole allora raggiungerle subito per morire assieme a loro, al che il Cappellano replica ricordandole che non è lei, ma Dio che ha deciso per lei una diversa sorte, alla quale dovrà sottostare mortificando il suo orgoglio.
Quadro quarto - Piazza della Rivoluzione. Le carmelitane scendono dal carro dei condannati a morte e cantando il Salve Regina, salgono al patibolo. Ogni volta che la lama cade, il coro diminuisce di intensità. Constance, salita per ultima, scorge Blanche fra la folla. Si ferma un istante, il suo viso si illumina di felicità, per riprendere poi il suo cammino verso il patibolo. Blanche sale a sua volta riprendendo il canto, fra la folla ammutolita. Si ode per l’ultima volta la lama cadere, dopodiché la folla comincia a disperdersi.
Gianfranco Vinay

sabato, aprile 20, 2024

Wagner a Palazzo Giustiniani

Tristano e Isotta
Ero nel settembre scorso a Venezia, di ritorno da un pellegrinaggio a Bayreuth, dove, a villa «Wahnfried››, avevo potuto esaminare alcune lettere autografe del Maestro. Appunto una di queste, diretta a Liszt e che fa parte del noto epistolario recava in testa la data - Venezia l2 settembre '58 - ed in calce un indirizzo, il suo preciso indirizzo: «Canal grande, palazzo Giustiniani, Campiello Squillini N. 3228 Venezia».
Ora, a Venezia i palazzi Giustiniani sul Canal Grande sono tre anzi quattro: quello posto quasi di fronte alla vecchia Dogana e che da oltre mezzo secolo è occupato dall'Hôtel d'Europa; altri due davvero monumentali, formano come una degna continuazione del magnifico palazzo Foscari: l'uno detto Giustinian del Vescovo ora Schiavoni Semagiotto, l'altro, pure Giustiniani, ora Brandolin: il quarto infine, di gran lunga più modesto, è separato da quest'ultimo da una stretta calle.
Ma con la scorta del miracoloso indirizzo fui sicuro di rintracciar quello dei palazzi Giustiniani, dove «Colui che aveva diffusa la potenza della sua anima oceanica sul mondo» tra il settembre '58 e il marzo '59, aveva composto il secondo atto del Tristano.
In una tiepida e rosea mattina d'autunno mi posi dunque alla ricerca della gloriosa dimora.
Disceso dal vaporetto a San Tomà e internatomi per un labirinto di calli di campielli e di canali, riuscii ad infilare un ponte oltre il quale, passando innanzi al grandioso portale cinquecentesco del palazzo Foscari, si perviene al solingo alberato Campiello dei Squillini. E poiché a Venezia la numerazione odierna delle case è ancora quella dei tempi del Goldoni (il quale è fama prediligesse questo «campiello» all'ora popolatissimo, per attingervi alle vive fonti i suoi dialoghi immortali) m'avvidi dai numeri intorno che il 3228 non doveva essere lontano. Lo trovai difatti in fondo a un vicolo chiuso tra due  muri alti e nerastri, da cui grandi alberi un poco ingialliti emergevano.
Alla squilla elettrica il portone s'aperse. Consegnata la mia carta da visita al portiere, questi, dopo un'assenza di qualche minuto mi invita a salire lo scalone del palazzo. Fatti due rami, mi trovai sopra un vasto loggiato dove il giovine conte Brandolino Brandolin mi accolse con la più cordiale amabilità. Mi chiarì subito che del grandioso palazzo le camere occupate del Maestro facevano parte degli ammezzati o mezzanini sotto il pian nobile. A quel punto l'edificio presentava uno stato di avanzato deperimento ed era proprietà di un austriaco, che lo affittava ai forestieri. Poco dopo la partenza di Wagner, e ciò tra la primavera e l'estate 1859, l'austriaco l'aveva venduto ad un russo milionario: il quale nella occasione del suo matrimonio con una leggiadra ballerina italiana, lo aveva sontuosamente restaurato e arredato, apportando molte modificazioni specialmente al cortile e al giardino. Ma pochi anni appresso quel russo essendosi incapricciato d'una giovanissima popolana chioggiotta, separatosi consensualmente dalla moglie, recavasi con l'amante a Costantinopoli, lasciando in proprietà il palazzo alla consorte. Questa allora trattò subito per la vendita dello stabile: di che essendo stato telegraficamente informato il marito, provvide senz'altro pe`l riacquisto di esso: dove, mortagli la moglie, si ridusse a vivere gli ultimi anni in compagnia della concubina.
Infine, nel 1876, il palazzo veniva acquistato dal conte Brandolin, padre del mio cortese informatore. Al quale, mentre mi andava esponendo la movimentata cronistoria del glorioso edificio erasi unito, nell'amabile ricevimento, un simpatico giovinetto della nobile famiglia Vendramin Calergi, con la quale i conti Brandolin si erano di recente imparentati. Ond'io non poteva a meno di avvertire la bizzarra coincidenza che aveva  riunite quelle due famiglie: l'una di cui il palagio aveva ospitato il Maestro nella piena vigoria delle sue forze e del suo genio possente, l'altra, nella cui principesca dimora l'autore di Parsifal, stremato dagli anni e dalle sofferenze fisiche era venuto a morire. Intanto eravamo entrati nella «vasta sala echeggiante» che serviva da stanza da lavoro del Maestro: quella appunto dov'egli, collocatovi il suo Erard ed apprestandosi a «tradurre in musica l'ammirabile Venezia», aveva composto la musica divina del secondo atto di Tristano.
Come era proprio quello, il «vasto ambiente prospettante il Canal Grande», dal «soffitto di buon gusto, interamente dipinto a fresco», su cui certo i suoi grandi occhi cerulei si erano tante volte affissati! Dai tre eleganti balconi, di stile archiacuto, la mirabile grande via d'acqua e di pietra appariva sotto un chiaro cielo tiepolesco solcato di nuvole; e appunto da quei balconi, «mirando con gioia ognora crescente il superbo canale», Colui che «aveva saputo dare alla sua vita la grande vittoria che le aveva promesso» si era detto: «È qui che terminerò Tristano
Lasciato, non senza rammarico, il memorabile salone, venni guidato nella «grande camera da letto contigua», pure prospettante il Canale, ed infine in una terza ampia stanza interna che riesce su la loggia dove, nelle lunghe giornate di pioggia e di neve «io poteva fare, egli scrive, i miei cento passi igienici».
La breve mia visita essendo terminata, io stava per accomiatarmi; ma l'ospite volle darmi il contentino finale e mi narrò che nell'autunno del '76, un giorno che la signora contessa Brandolin - madre al mio cortese interlocutore - era a letto indisposta, un forestiere si presentò chiedendo di visitare l'appartamento ai mezzanini in allora disabitato.
Avendo la nobile dama acconsentito, un servo accompagnò per le varie stanze lo sconosciuto visitatore, che vi si trattenne a lungo, ma soffermandosi con manifesta preferenza nell'ampio salone dal soffitto tiepolesco e affacciandosi ripetutamente or all'uno or all'altro dei balconi in vista al Canal Grande. Il servo ebbe a raccontare di poi che quella visita oltremodo prolungata e il contegno un poco strano del visitatore gli avevano persino destato qualche sospetto!... Finalmente il forestiero mostrò di volersene andare; ma prima chiese al domestico un foglio di carta e l'occorrente per iscrivere. Gli fu dato e colui, dopo scritto alcunché, se ne parti. Quando lo scritto dello sconosciuto fu portato alla contessa, questa ebbe la profonda sorpresa, mista di rimpianto e di gioia, di scorgere la firma autografa di Riccardo Wagner sotto una frase musicale ch'egli aveva trascritta dal secondo atto di Tristano: autografo preziosissimo che la famiglia Brandolin conserva religiosamente.
Mario Panizzardi
(da "Richard Wagner - Diario Veneziano" a cura di Giuseppe Pugliese,
Corbo e Fiore Editori, Venezia, 1983)

mercoledì, aprile 10, 2024

Fabio Vacchi: Teneke

Il tormentato percorso di un prefetto che non vuol farsi corrompere e viene cacciato. «E' un'opera di stampo sociale che racconta come il primo responsabile del conflitto fra uomini sia il denaro» racconta il regista Ermanno Olmi. Libretto di Franco Marcoaldi, scene di Arnaldo Pomodoro, dirige Roberto Abbado

La nuova opera di Fabio Vacchi, Teneke, su libretto di Franco Marcoaldi, scene di Arnaldo Pomodoro, regia di Ermanno Olmi, sul podio Roberto Abbado, vedrà la luce il 22 settembre alla Scala (la prima è dedicata all'associazione di volontariato Vidas). La vicenda è tratta dall'omonimo racconto di Yashar Kemal; il termine del titolo è intraducibile, indica un rudimentale strumento di percussione, un tamburo di latta, in italiano gode dell'assonanza con "tanica" ma con poco senso. Forte socialmente ed eticamente è invece il nocciolo della storia, il tormentato percorso di un "prefetto" alle prese con proprietari terrieri senza scrupoli, coltivatori di riso, che lo ammansiscono con doni quasi al punto di corromperlo per i loro tornaconti. Quando, in uno scatto di dignità, il protagonista decide di far applicare la legge, viene immediatamente cacciato.
Per presentare Teneke abbiamo seguito idealmente il passaggio dalla prosa originaria al palcoscenico.
«Definirei la mia un'operazione di doppio servizio - spiega Marcoaldi -. Il primo è stato quello di trasformare un racconto, che si affida a un tono epico, poco censorio alla nostra narrativa, in una scrittura drammaturgica. Bisognava trovare un taglio teatrale, adatto a un libretto d'opera, che però conservasse i modi originali. A questi ho voluto dare un andamento poetico, ne è uscito un italiano che ha la cantabilità propria della poesia. Il secondo servizio riguardava il rapporto con la composizione. Ho piena consapevolezza di quanto diceva Auden, cioè che i versi del librettista non si rivolgono al pubblico, sono una lettera privata diretta al compositore. Naturalmente ho portato a termine questa doppia mediazione tenendo presente che avevo a che fare con Fabio Vacchi, col quale sono legato da un'estetica, da un'etica comune e da una lunga collaborazione».
Ha dovuto fare ritocchi al Suo testo durante la lavorazione?
«Più che ritocchi, taglie aggiunte. Rispetto al racconto di Kemal, nel libretto per esempio viene data molta importanza alla fidanzata lontana del protagonista, una figura che consente di tenere un ponte sospeso fra Occidente e Oriente. Inoltre la fidanzata insieme alla madre contadina, donna di grande coraggio che sbeffeggia gli uomini che non riescono a sostenere la durezza della situazione, in qualche modo rafforza l'elemento femminile come uno degli elementi portanti della storia».
E il protagonista? Sconfitto eppure vincitore?
«Incarna l'idea stoica della morale, virtus ipsa praemium est. Il dramma scoppia quando si rende conto di non essere stato sufficientemente fermo nell'imporre la legalità. Viene cacciato, ma torna nel giusto, tranquillo con la propria coscienza. L'opera si chiude con la speranza dovuta a questa riappacificazione con se stesso, l'uomo se ne va, ma potrebbe anche tornare».
Nel racconto di Kemal si dice che il protagonista canterella il tema dell'Inno alla Gioia della Nona di Beethoven. Un segno musicale importante, che Vacchi ha però volutamente lasciato sullo sfondo.
«Non l'ho voluto inserire in partitura, l'ho fatto semplicemente fischiettare a un certo punto della vicenda - spiega il compositore -. Significa voglia di pace, di libertà, una voglia di Europa per i valori etici che teoricamente rappresenta. Nel senso della gioia come uno degli aspetti fondamentali del mondo illuminista. Quel piccolo fischiettare insomma rappresenta un anelito all'Illuminismo».
L'altra protagonista assente è Nermin, la fidanzata. I due hanno connotazioni musicali diverse?
«In Teneke è un continuo passaggio fra vari registri, etnico e colto, alto e basso. Generalmente nella mia musica questo procedimento è spesso rintracciabile in filigrana, qui invece risulta più marcato. Non si tratta di citazioni vere e proprie, è un materiale riconoscibile pur nella elaborazione che ne ho fatto. In Nermin invece non è nulla di tutto questo. Musicalmente la fidanzata è una specie di distillato della tradizione europea colta, dove è riconoscibile la mia matrice culturale. In altri momenti invece, come per esempio nella festa, saltano fuori spiccatamente dei dati etnici che vanno poi a fondersi col discorso prettamente compositivo. A parte Nermin, le connotazioni di tutti gli altri personaggi risultano sempre amalgamate, anche perché il più delle volte partecipano a scene d'insieme; le caratteristiche dell'uno e dell'altro sono abbastanza generiche, comunque si fondono continuamente a seconda del contesto in cui si trovano. Diciamo che non c'è un Leitmotiv, né uno strumento caratteristico che indica un volto particolare. E' la situazione scenica che determina il risultato musicale".
Quanto alle voci, ci sono combinazioni particolari?
«C'è il più grande assortimento possibile di atteggiamenti vocali, manca solo l'uso del recitato, ma il resto c'è. Le modalità di canto abbracciano tutto lo scibile vocale, sempre alla luce del mio concetto di grande forma che si basa, si puntella, sul gioco dei contrasti, sulle attese che vengono smentite dalle sorprese, ecc. Quindi grande varietà, però tutto molto unitario, compatto, mentre all'interno è la massima articolazione. Questo vale in generale per tutto il mio lavoro oltre che per Teneke».
Il coro come viene trattato?
«Per la prima volta nella mia produzione il coro ha una funzione da protagonista a pieno titolo. Il coro è spessissimo presente, Teneke è piena di scene concertate dove si fronteggiano due cori, in pratica dialogano: il coro dei proprietari e quello dei contadini che possono essere rappresentati da uomini e da donne o da soli uomini e da sole donne».
A ospitare tutto questo sarà una drammatica scenografia ideata da Arnaldo Pomodoro, giovane ottantenne, residente a Milano da 54 anni e che ora debutta alla Scala. Lui ci ride sopra, come a dire che era ora!
«Ad apertura di sipario si vede solo una montagna con terrazzamenti, sono le risaie della storia di Kernal - spiega Pomodoro. - Le risaie che ho visto in Kurdistan, Turchia, Madagascar, a Bali non sono sullo stesso piano come le nostre della Lomellina o del Pavese, ma a diversi livelli. In teatro non viene mai mostrato il cielo, quando i terrazzamenti vengono invasi dall'acqua, ne riflettono delle parti. Il cielo è proiettato su un grande telone in alto, non visibile in sala. Per far apparire via via le zone d'acqua ci sono dei mimi, visibili solo di schiena e camuffati da zolle di terra, che tolgono piano piano una specie di tappeto sotto il quale si vede un materiale acrilico color argento».
Ci sono elementi che richiamano le Sue sculture?
«La montagna ha un campo arato dall'aspetto molto inquietante, lascia supporre una tragedia; come i miei lavori, il campo è pieno di appigli, di intrighi... C'è un tessuto di tagli, di elementi cuneiformi. Dal basso sale poi una specie di medusa che lascia intravvedere degli artigli. Naturalmente è una forma astratta, ma mostra la forte aggressività della terra coltivata».
Non a caso agricoltura e mondo contadino sono temi cari a Ermanno Olmi, che proprio in questi giorni sta girando un documentario nell'ambito di Terra Madre, movimento promosso da Slow Food. La regia di Teneke rientra quindi a pieno diritto nei suoi attuali interessi.
«A dir la verità la mia partecipazione a questa avventura lirica è nata nel segno dell'amicizia. Tutto ha avuto origine da un incontro che ho avuto con Vacchi, dove invece di parlare di musica abbiamo parlato di letteratura. Gli ho segnalato i libri di Kernal che a mio avviso è una delle più belle penne del secolo, tanto che considero davvero un privilegio averlo incontrato e esserci reciprocamente capiti. Vacchi così si è innamorato di Teneke, al punto di confessarmi di volerne fare un'opera. Di qui è sorta una specie di gemellaggio ideale, che ha seguito il suo corso».
Rispetto a un titolo di repertorio che problemi ha posto l'opera di Vacchi?
«In Teneke non si ha a che fare col tipo di drammaturgia che ha caratterizzato la storia del melodramma, quando gli uomini parlavano con gli dei o si struggevano d'amore, tipicamente segnati dal loro tempo. Teneke, per dirla con un termine alla mano, è un'opera di stampo sociale, che racconta come il primo responsabile del conflitto fra uomini sia il denaro, il potere. In questo senso è un'opera che marchia il nostro tempo, suggerisce una musica aspra, tanto che il tamburo di latta è lo strumento sul quale si battono i colpi della festa o della protesta, non è, certo strumento classico. Dal punto di vista registico quindi non si è trattato di essere innovativi con qualcosa di preesistente e di tradizionale, ma di collocare nel filone del melodramma elementi che normalmente non gli appartengono. E' dalla stessa naturalità delle cose, dalla materia stessa della vicenda che abbiamo fatto affiorare questi elementi estranei alla tradizione operistica».
«Tra i momenti più lontani dalla consuetudine è senz'altro il finale aggiunge il direttore d'orchestra Roberto Abbado -. Un lungo brano puramente orchestrale, in cui il coro comincia a battere sui teneke, è un saluto al protagonista in partenza ma è anche una protesta. L'orchestra nel frattempo cresce d'intensità e quando cessano i teneke prorompe dall'orchestra un canto straziante. Ma non è ancora la chiusa, perchè ha l'ultima parola il ritmo. Un sovrapporsi di ritmi, direi africani».
Si tratta di una partitura generalmente molto complessa?
«Senz'altro. Le scene si differenziano una dall'altra, anche nello stile. I due cori per esempio danno vita a grandi affreschi, secondo la tradizione italiana, penso alle scene corali verdiane. Mentre la prima scena, dopo la brevissima introduzione orchestrale esplosiva, è un concertato rossiniano, una rivisitazione del sestetto della Cenerentola. Ci sono poi temi popolari, alcuni di questi anche se non esattamente turchi banno una matrice mediorientale; e c'è pure un canto friulano, ma la conformazione melodica e gli intervalli che lo compongono lo trasformano in qualcosa di mediorientale. Compare anche una situazione ricorrente, caratteristica dell'opera, quando una parte dell'orchestra, rappresentata anche da un solo strumento o una coppia, agisce indipendentemente dal tempo principale dell'orchestra, improvvisando su note e ritmi dati. Nella scena dello smarrimento totale del protagonista corrisponde addirittura a un'orchestra impazzita, dove non esiste più un tempo metronomico e dove il procedimento di accavallamento arriva al massimo grado, l'orchestra suona sulla base di un cronometro e non di un tempo scandito. Si passa da scene musicalmente violente ad altre poeticissime, come quelle di Nermin, l'amore assente».
Stefano Jacini
("il giornale della musica", 09/07)

lunedì, aprile 01, 2024

Ferruccio Busoni: Dalla teoria alla pratica

Ferruccio Busoni (1866-1924)
Studiando recentemente i primi lavori composti da 
Busoni, e in particolare l'opera Die Brautwahal («La sposa sorteggiata»), mi è capitato di riflettere alla notevole affinità che lega il compositore italiano ad Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Anzi più che di una particolare affinità, si dovrà parlare di parecchie affinità, di numerosi legami che corrono fra i due artisti.
Quando nel 1905 Busoni scelse come argomento per la sua prima opera teatrale un racconto di Hoffmann, intuì per il primo quanto vi fosse in comune tra lui e lo scrittore-musicista tedesco. Questo comune denominatore può essere chiaramente indicato con un'espressione che la critica letteraria ha adottato per designare la singolare problematica di uno scrittore italiano del nostro secolo: si tratta precisamente dell'espressione «realismo magico», e cioè di una definizione che, come tutti sanno, è stata, a suo tempo coniata a beneficio di Massimo Bontempelli. Ora se ci sono una produzione letteraria e una produzione musicale alle quali si addice tale definizione, queste sono appunto la produzione letteraria e musicale riferibili ai nomi di Hoffmann e di Busoni; l'uno e l'altro impegnati, e come si sa non soltanto nel caso della «Sposa sorteggiata», a cogliere nella realtà della vita quei caratteri che sono tanto più realistici quanto meno sembrano esserlo. Da qui il grottesco, il sovrannaturale, la caricaturale deformazione della realtà comune che consentono di assumere il vero e l'autentico al di fuori della banalità del documento veristico o delle mistificazioni di un irrazionalismo programmaticamente sprovvisto di qualsivoglia rapporto con la realtà.
Questo ricorso al grottesco risultò essere, e per Hoffmann e per Busoni, un'operazione non soltanto artisticamente valida, ma anche storicamente tempestiva: essendosi trovati, tanto il letterato quanto il musicista, a vivere in epoche nelle quali il ricorso all'epica era addirittura impensabile (se non nei termini della più superficiale retorica); quando invece  l'ironia e il grottesco potevano agevolmente esercitarsi sopra una realtà tutt'altro che eroica e dinamica. Se questa affinità tra Hoffmann e Busoni è certificata anche dallo specifico incontro che si realizzò fra i due a livello della «Sposa sorteggiata», va subito rilevato che tale maniera di concepire il rapporto dell'arte con la vita giocò a sfavore dello scrittore e musicista quasi in eguale misura: e anche questa incomprensione presso i contemporanei - la pedina  che apparentemente non partecipa al gioco come diceva Kafka! - è rimasto un dato comune ai due creatori d'arte. Per Hoffmann si arrivò, nel secolo scorso, alle più contrastanti valutazioni (valutazioni dei professionisti dell'arte, ben inteso, perché dal punto di vista del successo popolare Hoffmann poteva sempre contare sul pubblico delle bettole berlinesi a beneficio del quale improvvisò buona parte dei suoi racconti). Goethe, tanto per incominciare, riteneva che la produzione hoffmanniana fosse del tutto al di fuori della realtà: fosse cioè un campionario di «superlunarische Sprünge» di «salti superlunari», di fantasiose fughe dalla concretezza. Al contrario: per i letterati del secondo Ottocento (specie per quelli della Germania che dopo gli ardori rivoluzionari del 1848 puntava verso gli approdi del più marcato disimpegno ideologico), per questi letterati, dunque, Hoffmann era sterilmente improduttivo perché troppo legato ad una realtà non sufficientemente trasfigurata; opinione, codesta, del tutto condivisa, ma in senso positivo, da Carlo Marx, prima, da Gyorgij Lukàcs più recentemente (il che è ovvio, se si pensa che il satirico mordente delle narrazioni hoffmanniane, per nulla mistificato od oscurato da fantasiosi «salti superlunari», era fatto per dare soddisfazione a Marx quanto per dare fastidio ai protagonisti dell'irrazionalismo tardoromantico).
Il caso di Busoni è analogo, per quanto a distanza di un secolo circa dal caso Hoffmann e sul piano di un linguaggio avente caratteristiche ben differenziate da quelle del linguaggio letterario. Per quello che riguarda il giudizio dei contemporanei la situazione del compositore Busoni si presenta anche peggiore di quella toccata in sorte ad Hoffmann. È noto che, da vivo, Busoni ebbe molti riconoscimenti come pianista ma fu quasi del tutto ignorato come compositore, specialmente in Italia. Per cui su Busoni compositore si possono raccogliere a centinaia non tanto i giudizi sulla sua arte, quanto le testimonianze sulla scarsa circolazione della sua musica. A parte il caso di Arrigo Boito e di Anton Rubinstein che furono tra i primi a riconoscere il non dubbio talento del nostro, la «Busoni Renaissance», se così vogliamo chiamarla, seguì un processo lento e ancor oggi tutt'altro che definitivo. In Italia, in particolare, la musica di Busoni ebbe vita stentata; e altrettanto stentato fu il processo di rivalutazione critica: del quale va in grandissima parte riconosciuto il merito a Guido M. Gatti e alla «Rassegna Musicale» da lui diretta (e infatti tra le pagine della citata rivista troviamo, oltre a singoli articoli dedicati a Busoni un numero speciale a lui dedicato). L'attività pioneristica di Guido M. Gatti risulta anche, sul piano della diffusione della musica busoniana, in un articolo di Gui che figura, per l'appunto, nel numero speciale della «Rassegna Musicale» datato al 1940. «Che Ferruccio Busoni fosse anche un compositore di musica» scriveva Gui in quell'articolo «fino a qualche tempo fa la più gran parte degli italiani ignorava perfettamente, e parecchi ancora oggi purtroppo lo ignorano; che egli occupi poi un posto altamente importante nella storia della composizione italiana, credo che sia ancora da rivelare; questo io sto tentando di fare da parecchi anni, insieme con un esiguo ma energico gruppo di musicisti e musicologi nostri, primo fra tutti Guido M. Gatti, col quale fin dal 1926, quando insieme dirigevamo quel Teatro di Torino che in breve spazio di vita richiamo tanta attenzione da parte di tutti gli ambienti musicali europei e americani, dedicammo a Busoni compositore parte di programmi sinfonici, con la collaborazione del più grande discepolo e amico del Busoni stesso, il pianista Egon Petri...».
Ma quali furono le ragioni che, due anni dopo la morte del musicista, fecero sì che l'opera di rivalutazione iniziata da Gatti e da Gui dovesse avere, soprattutto in Italia, il carattere dell'assoluta novità? Alcune di queste ragioni erano di ordine casuale; la fama di grande interprete nuoceva al Busoni compositore, così come a Mahler compositore ebbe a nuocere la fama di grande direttore d'orchestra. Ma le ragioni prime dell'insuccesso «mondano» - se così si può chiamarlo - di Busoni, furono, a mio parere,  d'ordine stilistico: condizionate, cioè dalla provocatoria novità di linguaggio e d'espressione della musica busoniana. Già nel periodo 1905-1912, e cioè nel periodo in cui fu composta l'opera Die Braatwahl, Busoni batteva una strada solitaria e in gran parte contrastante con le tendenze dominanti nella produzione musicale di quegli anni: le quali, tanto per  dare qualche esempio, avevano, come capisaldi ufficialmente riconosciuti, lavori come L'uccello di fuoco di Strawinski (anno 1910); Petruska, ancora di Strawinski (anno 1911); Elektra di Richard Strauss (anno  1909); i Cinque Orchesterstücke op. 16 di Schönberg (anno 1908); La fanciulla del West di Puccini (anno1910). A parte il caso Schönberg, rispetto a cui il busoniano principio della mobilità polifonica si sintonizza con una prospettiva musicale allora peraltro assai meno diffusa di quelle riferibili ai nomi di Strawinski, Strauss e Puccini; a parte questa singolare convergenza, bisogna riconoscere che la problematica  compositiva di Busoni era del tutto estranea all'evoluzione musicale allora ufficialmente in corso: estranea, in particolare, sia al prezioso decadentismo dei tardoromantici francesi, sia all'estroversa turbolenza gestuale dell'opera straussiana, sia alla passionale pianificazione stilistica del teatro musicale verista, sia a quel nuovo classicismo che di lì a pochi anni avrebbe dominato le vicende internazionali della musica (nuovo classicismo, giova subito sottolinearlo, che avrebbe assunto caratteristiche in gran parte nettamente differenziate da quelle proposte da Busoni: il quale per «nuovo classicismo» intendeva - come si legge in una nota lettera a Paul Bekker sull'argomento - «il dominio e lo sfruttamento di tutte le conquiste di esperienze precedenti: il racchiuderle in forme solide e belle»; senza pretendere, quindi, utopistici ritorni allo stile della musica preromantica e senza rifiutare il patrimonio dell'esperienza musicale immediatamente precedente).
Già dall'epoca della Sposa sorteggiata, Busoni è quindi praticamente contro tutti e tutto. Contro «la musica a programma» tipica dei poemi sinfonici alla Strauss. Contro la Wagneriana melodia infinita, alla  quale Busoni preferisce, come si legge nel Saggio su di una nuova estetica della musica del 1905, «la formula dell'opera antica, che abbracciava in un pezzo chiuso lo stato d'animo ottenuto con una scena drammaticamente movimentata e poi lo lasciava esaurirsi nell'aria». Contro l'opera verista: perché, affermava Busoni, «la parola cantata sul palcoscenico rimarrà sempre una convenzione e un ostacolo per ogni veridico effetto»; ritenendo quindi «che il cosiddetto verismo italiano» (sono ancora parole di Busoni) «sia insostenibile sulla scena». Contro l'armonia verticale-parallela e a favore, nei fatti oltre che nella teoria, di strutture musicali «polifoniche e multi-versali». Contro l'usuale contrapposizione dissonanza-consonanza, e a favore di quella emancipazione della dissonanza che la mobile impalcatura della busoniana «polifonia multi-versale» riesce effettivamente a produrre in non pochi episodi della Sposa sorteggiatadel Doktor Faust (episodi nei quali l'ambiguità tonale è favorita dalla non percettibilità dei singoli rapporti d'intervallo, assorbiti dall'irrequieta proliferazione polimelodica del discorso musicale).
Questa polemica ricerca della propria individualità, il compositore Busoni la ha perseguita, come i testi delle sue musiche documentano, con la perseveranza dell'instancabile esploratore di nuove frontiere linguistiche ed espressive. Ma, nel passaggio dalla teoria alla pratica, può essere riconosciuta a Busoni la piena attuazione del suo programma estetico? Non del tutto: perché l'intera produzione musicale, e in particolare quella operistica, di Busoni, rimane quasi costantemente divisa tra l'aspirazione ad una mozartiana chiarezza delle strutture e la messa in opera di quella «musica assoluta», di quel polifonico sfaccettarsi del materiale sonoro che condurranno la fantasia musicale del nostro compositore sul terreno di un'esperienza assolutamente inedita. Sotto questo aspetto Die Brautwahal e il Doktor Faust, contrariamente a quanto avviene nella assai meno problematica prospettiva di Arlecchino e di Turandot, portano il segno di numerose contraddizioni: e anche questo squilibrio riesce in definitiva a rendere produttivo il significato artistico dei citati lavori. I modelli dei quali - taciuti o dichiarati che siano - sono contemporaneamente Falstaff e i Meistersingers, l'Otello e il Parsifal. Le costruzioni omofone-parallele vi coesistono con la polifonia «multi-versale»; i tormenti decadentistici vi si alternano alla «neutralità» quasi astratta dell'espressione (nelle pagine d'argomento amoroso, in particolare, dove Busoni, evidentemente, teneva d'occhio i pericoli delle cadute sentimentalistiche quando addirittura non le metteva, come fece nel Doktor Faust, fuori causa); le più scoperte contrapposizioni fra apertura della dissonanza e chiusura della consonanza vi si mescolano con episodi dove  la concitazione del discorso musicale e la multi-linearità polifonica toccano il vertice dell'ambiguità tonale.
Questa tormentata - e tutt'altro che futile od occasionale - prospettiva di Busoni riesce, come ho già detto, a fare della Sposa sorteggiata e del Doktor Faust due prodotti artistici tra i più notevoli del secolo in corso; tra i più dinamicamente aperti ad una trasformazione criticamente e storicamente consapevole del linguaggio musicale. Per cui, per concludere, non si può fare a meno di affermare, con Luigi Dallapiccola, che «nessun motto si addice di più a Ferruccio Busoni uomo e artista che la frase di Hölderlin: «Wir sind nichts; Was Wir suchen ist alles» ovvero «Noi siamo nulla; ciò che cerchiamo è tutto».
Proprio sul significato della «ricerca» busoniana si sono avute, in un recente dibattito tenutosi ad Empoli (8 settembre 1966), discordi valutazioni. Si è cominciato con il discutere se la «ricerca» musicale di Busoni avesse un carattere «italiano» o «tedesco»: italiano, secondo Rattalino, tedesco secondo Duse e Rognoni. In effetti, il problema è abbastanza intricato: non tanto, a mio parere, per il fatto che Busoni abbia formato la propria cultura in quel di Trieste o in paesi di lingua tedesca, quanto per il fatto che la sua stessa produzione musicale partecipa alternativamente a due ben differenziate e non sempre conciliabili prospettive. Per cui da una parte abbiamo il Busoni della Sposa sorteggiata e del Doktor Faust,opere per le quali Duse ha avuto effettivamente buon gioco ad affermare che chi scrive musica per un libretto tedesco appartiene di diritto alla cultura tedesca; dall'altra parte abbiamo il compositore di Turandot e di Arlecchino, e qui la struttura operistica e il linguaggio musicale dei testi appartengono di diritto all'area culturale dell'opera italiana, e questo indipendentemente dalla lingua adottata per il libretto originale e dai dati biografici che ci può offrire il cosmopolitico itinerario dell'uomo e del musicista Busoni. Ma il problema è poi tanto importante? Se lo è, non bisogna dimenticare a questo proposito tre speciali fattori: il primo riguarda la difficoltà di mettere in chiaro la più che intricata biografia del musicista provvedendo a porla in relazione - là dove è possibile - con l'evoluzione stilistica del medesimo; il secondo si riferisce al valore tutt'altro che definitivo di prove come quelle addotte da Duse a sostegno della qualificazione «tedesca» della musica di Busoni (ad esempio: l'uso di una determinata lingua per un libretto ha certamente la sua importanza; ma è una prova indiziaria che, se non è sostenuta dalle debite corrispondenze di natura propriamente musicale, non basta a chiudere l'argomento: le Nozze di Figaro e le Vepres Siciliennes - per non parlare delle molte partiture contemporanee che usano testi in lingue diverse da quella nativa del compositore - sono lì a dirci quanto la base linguistica non sia sempre confermata dai fatti musicali, spesso tutt'altro che condizionati dallo stile che quella lingua sembrerebbe dover suggerire); il terzo fattore, infine, è quello - da Guido M. Gatti sostenuto ad Empoli con calorosa animazione - che la nazionalità musicale di Busoni, ammesso che ne sia possibile la netta identificazione, è un problema di gran lunga meno importante di quello che si riferisce alla qualità dell'opera busoniana e al suo significato nell'ambito della storia musicale otto-novecentesca.
Il problema, si sa, è stato finora tutt'altro che esaurito (e forse non lo sarà mai, data l'estrema complessità e multi-linearità - tanto per rimanere ad una espressione cara al Busoni teorico - dell'evoluzione stilistica busoniana). Certo è che, per interessarsi fattivamente all'opera del nostro compositore, bisogna sgombrare il campo da pericolose pregiudiziali. Quando Duse per esempio afferma - come ad Empoli ha affermato - che Busoni oggi ci può anche interessare come teorico, ma non più come produttore di musica, la «Busoni Renaissance» ha tutta l'aria di sembrare un'operazione accademica, un'orazione funebre pronunciata distrattamente sulla tomba di una salma che si ha fretta di vedere sepolta. Se Busoni è un'appendice assai poco fruttifera del tardo romanticismo, che senso avrebbe cercarne i collegamenti con l'esperienza musicale del Novecento, sia pure attraverso i suggerimenti che le pagine teoriche del compositore propongono? Senza contare, poi, che anche nelle proposizioni teorico-estetiche di Busoni si possono leggere cose che non depongono certo a favore delle presunte propensioni rivoluzionarie del Nostro: per cui Duse, preoccupato forse di non abbandonarsi alle solite apologetiche esaltazioni del musicista, ha creduto bene di mettere sotto processo anche il Busoni foggiatore di teorie estetiche. In definitiva: ad un certo punto è sembrato che a Busoni non ne dovesse andar bene una: aveva sbagliato come compositore e aveva sbagliato come teorico. Il che è anche possibile, o perla prima, o per la seconda, o per tutte e due insieme le attività da Busoni praticate. L'indagine critica è fatta anche di stroncature feroci e di appassionate apologie e mai come oggi questo metodo è stato in voga. Ma nelle une e nelle altre c'è sempre un tocco di compiacimento all'assolutismo argomentativo che serve a ben poco, se non è aperto a successive aperture al confronto con le idee altrui (e perciò mi auguro che la passione polemica di Duse sia passibile di più pacati ripensamenti). Altrimenti il discorso è chiuso - e non soltanto per Busoni - e si continua a far la critica sulla scorta dei proclami e dell'affermazione categorica e non discutibile delle proprie opinioni: dopo di che può anche succedere che Tutti la vogliono di Paccagnini sia delegata a diventare il manifesto di una travolgente rivoluzione musicale e il Doktor Faust di Busoni a raffigurare il malinconico ripiegamento di un reazionario dell'esperienza musicale tardoromantica. Così come è potuto accadere per la produzione di Verdi, personaggio estraneo alle scottanti questioni degli anni correnti: quasi metà delle sue opere hanno potuto essere da una parte condannate con ferrea determinazione e dall'altra trasferite, con entusiastica passione. nell'Olimpo dei capolavori che non si discutono. E poi ci lamentiamo della mistica perentorietà della «rivoluzione culturale» nella Cina anno 1966!
Giovanni Ugolini
("Disclub" 22/23, anno IV, settembre-dicembre 1966)